Il termine per l’impugnazione del licenziamento

 

Il termine per l’impugnazione del licenziamento

Con ordinanza n. 34489 del 26 dicembre 2024, la sezione lavoro della Corte di Cassazione è intervenuta in tema di impugnazione del licenziamento.

L’art. 6 L. n. 604/1966 (come novellato dall’art. 32, comma 1, L. n. 183/2010) dispone: “1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch' essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. 2. L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo …”.

Con sentenza n. 212/2020 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, L. n. 604 cit. (come sostituito dall’art. 32, comma 1, L. n. 183/2010) “nella parte in cui non prevede che l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669 bis, 669-ter e 700 del codice di procedura civile”.

A seguito di questa pronunzia “additiva” della Consulta, l’espressione “ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro” di cui al primo periodo del secondo comma dell’art. 6 cit. deve essere inteso come comprensivo di due tipologie di ricorsi: quello ordinario ex art. 414 c.p.c. (ovvero quello secondo il c.d. rito Fornero ex lege n. 92/2012: Cass. civ. ord. n. 2312/2022) e quello cautelare ante causam ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c. Ne consegue che nel secondo periodo del secondo comma dell’art. 6 cit., il termine “ricorso” – da depositare a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo sulla richiesta di conciliazione o di arbitrato – va identificato nello stesso modo, perché il legislatore ha inteso riferirsi appunto alla nozione di “ricorso” di cui al primo periodo del medesimo secondo comma, nozione che, a seguito di Corte Cost. n. 212/2020, deve ritenersi comprensiva anche del ricorso cautelare ante causam.

In tal senso si è già espressa la Suprema Corte (Cass. civ. ord. n. 10285/2023; Cass. civ. n. 3818/2021), in considerazione del fatto che il procedimento d'urgenza, al pari di quello ordinario, assolve alla primaria funzione di emersione tempestiva del contenzioso e alla connessa finalità di superare l'incertezza suscettibile di incidere in modo significativo sull'organizzazione e sulla gestione dell'impresa, avuto anche riguardo alla particolare affinità sussistente tra i due procedimenti, in ragione della definitività – seppur condizionata ad una differente ed eventuale decisione assunta nel giudizio ordinario – che caratterizza il provvedimento conclusivo del procedimento cautelare d'urgenza.

Riferimenti Normativi:

 

  • Art. 414, c.p.c.
  • Art. 700, c.p.c.
  • Fonte: Giovanna Spirito N Jus